Il modello mercantilista, concorrenza fra le nazioni e deficit finanziari

Secondo il modello mercantilista la competitività nel commercio internazionale, tesa a creare saldi attivi nella bilancia dei pagamenti, va raggiunta, a parità di altre condizioni, anche mediante la riduzione dei salari. Tale modello ha comportato, come ormai ampiamente risaputo e dimostrato, la creazione di gravi squilibri commerciali, attuando una vera e propria concorrenza rovinosa, nell’ambito della stessa Unione europea, finendo per rafforzare le imprese ed i paesi del nord – centro Europa, fra cui in primis la Germania, ed indebolire le imprese ed i paesi del sud – vedi Grecia.

L’adozione di misure di austerità, nei confronti di questi paesi sembra più funzionale al recupero dei crediti vantati dai paesi esportatori che non ad una reale intenzione di aiutarne l’effettivo sviluppo socio economico. L’euro appare, allora, non tanto uno strumento monetario di cooperazione e sviluppo ma, piuttosto, un’opportunità da cogliere – si pensi alla svalutazione competitiva che il marco con esso ha ottenuto – al fine di realizzare avanzi commerciali in ambito europeo, raccolta di liquidità per le banche del sistema paese1 (attraverso gli incassi da transazioni commerciali delle imprese) da impiegare, sempre in ambito europeo, a favore delle banche dei paesi importatori, per agevolare le proprie esportazioni verso di essi.

Le stesse quattro libertà fondamentali concretizzatesi nella libertà di movimento di persone, merci, servizi e, soprattutto, capitali, paiono oggi essere state estremamente funzionali a logiche competitive di tipo neo liberista, tradendo lo spirito cooperativo e solidale fra i paesi dell’Unione che almeno sulla carta pare auspicassero i padri fondatori2.

E’ opportuno, in breve, precisare che il modello mercantilistasi caratterizza: 1) nel ruolo attivo dello Stato per una incisiva amministrazione degli affari economici del paese; 2) nell’attribuire un compito essenziale alla moneta ai fini della ricchezza del paese; 3) nella realizzazione di saldi attivi della bilancia commerciale causati da una prevalenza delle esportazioni rispetto alle importazioni che determinano, a loro volta, l’accumulo di riserve finanziarie; 4) nella importazione / utilizzo di materie prime e fattori produttivi (fra cui il “fattore” lavoro), in genere, a basso costo, per aumentare la produttività economica.

In particolare, le differenti strategie competitive di politica commerciale estera attuate dai diversi stati appartenenti all’Unione Europea hanno comportato la realizzazione di forti squilibri monetari3 fra gli stessi, con la creazione di reciproci deficit ed eccedenze finanziarie, derivanti dalle operazioni di importazione ed esportazione intra comunitarie.

Il deficit a cui qui si allude non è ancora quello del bilancio pubblico ma quello del sistema finanziario del paese. Infatti, dato uno stock di moneta circolante, le importazioni causano una richiesta di credito da parte delle imprese al sistema bancario il quale, a sua volta, scarseggiando la raccolta, si deve indebitare verso sistemi bancari esteri (verso quelli, in particolare, che hanno realizzato, eccedenze finanziarie attive da esportazioni, da impiegarsi convenientemente in operazioni di credito, se possibile, che a loro volta generino ulteriori esportazioni, creando così un circolo “virtuoso” per lo Stato esportatore e “vizioso” per lo Stato importatore)4.

Tali deficit nei flussi finanziari, in una sorta di reazione a cascata, hanno comportato effetti sulle singole imprese, sulle banche e sulle finanze pubbliche. Effetti attivi per i paesi esportatori ed effetti negativi per i paesi importatori5.

Debiti privati (derivanti da importazioni realizzate da imprese e trasferiti al sistema bancario domestico a cui sono stati richiesti prestiti) si trasformano in debiti pubblici quando le banche nazionali diventano insolventi nei confronti delle banche estere dei pesi forti, in virtù della penuria delle proprie riserve di liquidità causata dalla continua diminuzione di raccolta, che si cronicizza in quei paesi che, una volta effettuate le importazioni, non riescono ad attivare circuiti economici produttivi sufficienti atti a ricostituire le risorse consumate. L’insolvenza delle banche nazionali, come intuibile, pone gravi problemi sia interni che esterni al paese. Lo Stato, quindi, al fine di evitare il collasso del proprio circuito economico, tenta di intervenire in operazioni di salvataggio, indebitandosi a sua volta.6

Oggi, per i paesi aderenti all’euro, avendo gli stessi perso il controllo diretto della potestà monetaria, l’unica via di uscita è quella di incrementare il debito pubblico, (però a tassi d’interesse alti, a causa della scarsa appetibilità dei propri titoli – dovuta al rischio paese degli Stati più in difficoltà – con la certezza di perdere ulteriormente il controllo del debito pubblico e di esporsi ad improvvisi attacchi speculativi da parte della grande finanza deregolamentata)7, giungendo, così, alla fine, a dover ricorrere ad interventi di finanziamento straordinari delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Fondo salva stati UE, ecc.) accettando, in contropartita, pesanti condizioni di risanamento delle finanze pubbliche finalizzate, in primis, a creare risorse da destinare al rimborso dei debiti contratti.

La contropartita di tali misure di austerità è il taglio di alcune importanti spese sociali aventi ad oggetto sanità, scuola, pensioni, ecc., oggi, addirittura, ritenute un “fardello” per le economie8. Le altre soluzioni adottate, in questi scenari, hanno tipicamente ad oggetto la dismissione o vendita di patrimonio pubblico (fra cui anche aziende, mediante piani di privatizzazione ad ampio raggio).

Queste azioni vengono attuate col fine di “far cassa” ed in ossequio al principio secondo cui una gestione aziendalistica e privatistica dei beni ed imprese, realizzando economie, sempre e comunque, comporterebbe un miglioramento per la società. Il fenomeno che, però, al riguardo, oggi si può osservare, a distanza di qualche lustro dall’inizio delle liberalizzazioni e privatizzazioni, sembra andare in senso contrario con la perdita di posti di lavoro ed aumenti tariffari.9

Ritornando alle dinamiche finanziarie che discendono dai rapporti fra gli stati ed al connesso ruolo delle istituzioni finanziarie europee è qui, forse, il caso di accennare all’inutile polemica, montata nel 2011 ad opera, in particolare, di una parte di economisti tedeschi, e che pare aver colto impreparati, sia politici che accademici (non, probabilmente, i tecnici – meglio tecnocrati – che, soli, conoscono a fondo i meccanismi di funzionamento e, soprattutto, i loro effetti, dei sistemi di pagamento interbancari internazionali).

In sintesi, il sistema di pagamenti interbancari internazionali europeo (originati da operazioni, fra l’altro, di esportazione/importazione) definito Target2, crea reciproci rapporti di debito (paese importatore) e credito (paese esportatore) delle rispettive banche centrali verso la BCE, che funge, in questo caso, da stanza di compensazione. In questo meccanismo, complesso, alla fine si ottiene il risultato di creare disponibilità monetaria sul c/c dell’esportatore a fronte di una diminuzione di disponibilità, di pari importo, sul c/c dell’importatore.

Da un punto di vista, si sottolinea, meramente contabile, è evidente che da tale meccanismo (il Target2) si possa dedurre che i paesi strutturalmente esportatori realizzano delle eccedenze attive verso la “stanza di compensazione BCE” ed, all’opposto, i paesi importatori, realizzano delle eccedenze passive verso la “stanza di compensazione BCE”.

Da questa constatazione contabile gli economisti citati giungono a concludere che i paesi esportatori, avrebbero maturato un credito nei confronti del sistema di pagamenti europeo, pari alle proprie eccedenze strutturali.

Si tratta di un equivoco: infatti, la banca centrale del paese importatore, distrugge base monetaria (nei confronti dell’importatore) mentre quella del paese esportatore la crea (nei confronti dell’esportatore). Se la stanza di compensazione è la BCE le partite registrate dalle banche centrali sono mere partite di giro, che si devono elidere. Occorre, infatti, ricordare che l’euro realizza un’unione monetaria: le singole banche centrali, pur avendo mantenuto una loro limitatissima autonomia, più formale che reale, devono considerarsi, sotto molteplici profili, compreso quello dei pagamenti interbancari, un tutt’uno con la BCE.

Il ragionamento degli accademici tedeschi porta ad una duplicazione del debito o del credito, il quale, come dimostriamo in questo lavoro, già di per se, con gli effetti a cascata propri del circuito del debito bancario, può trasferirsi dalla dimensione privata a quella pubblica per effetto di avanzi o deficit strutturali patologici10 della bilancia commerciale. Al limite i saldi Target2 assolvono alla funzione di indicatori economici.

Lo scenario descritto, che evidenzia come, (partendo da una situazione di deregolamentazione finanziaria e commerciale, si giunga a generare crisi finanziare e del debito pubblico), chiama anche ad interrogarsi su quale debba essere, oggi (a differenza di ieri) il ruolo (attivo o passivo) delle banche centrali, vere e proprie istituzioni di riferimento, in campo economico monetario.


1 Il concetto di “sistema paese” nel contesto del presente lavoro vuole indicare, in modo sintetico, la realizzazione di una chiara convergenza di politiche industriali, commerciali, del lavoro, fiscali, finanziarie, valutarie ecc., orientate verso un unico o più obbiettivi e caratterizzate, quindi, da un elevato grado di interdipendenza programmata.

2 E’ interessante notare come il divieto di aiuti di stato previsto dai trattati europei, in ossequio alla parità di trattamento sul territorio dell’Unione, degli operatori economici, in particolare, imprese, e le autorizzazioni espresse da parte della Commissione UE, necessarie per potervi derogare, assuma, oggi, le sembianze di uno strumento di controllo predisposto a favore dei paesi (ed imprese) forti – tendenzialmente esportatori – e di svantaggio nei confronti dei paesi (ed imprese) deboli – tendenzialmente importatori. Si tratta di una conclusione ex post, questa appena fatta, che, evidentemente, fa sacrificio degli intenti, probabilmente genuini, che sono stati alla base dell’introduzione di tale meccanismo di controllo.

3 E’ evidente il trasferimento di liquidità (risorse finanziarie) dal sistema paese importatore verso il sistema paese esportatore.

4 Tendono a sfuggire a tali logiche le dinamiche commerciali attuate dalle imprese multinazionali o transnazionali le quali, in considerazione delle dimensioni ciclopiche raggiunte e del relativo potere contrattuale acquisito, fuoriescono dall’orbita della giurisdizione degli stati di origine (si veda il caso FIAT, ora FCA, con le sue sedi trasferite da Torino in Olanda ed Inghilterra) giungendo a sfruttare le legislazioni di quei paesi che appaiono loro più favorevoli. Vengono, al riguardo, in rilievo, principalmente, criteri di convenienza fiscale (ma non solo) – attuandosi dei veri e propri scenari di concorrenza fiscale fra gli stati, con abbassamento delle aliquote – c.d. flat tax – finalizzate ad attrarre, in primis, capitali esteri. E’ chiaro che la scelta concreta di una localizzazione di un’impresa transnazionale è condizionata anche da altri elementi, quali il costo dei lavoratori, la legislazione ambientale (più o meno severa), l’esistenza di infrastrutture, la tranquillità politica, ecc. Del tutto (o quasi) indipendenti da tali variabili sono, invece, le localizzazioni di comodo realizzate da finte società estere, la cui sede, talvolta con pochi click di mouse, viene collocata nei c.d. paradisi fiscali. E’ facile immaginare anche che la gestione delle risorse finanziarie delle grandi imprese transnazionali, quanto alla localizzazione geografica, ed organismi finanziari utilizzati, possa seguire particolari criteri di convenienza fiscale e sicurezza finanziaria, giungendo anche ad utilizzare territori le cui legislazioni in materia paiono le più adatte al perseguimento di tali obbiettivi.

5 Dobbiamo osservare, per completezza, che il realizzare avanzi commerciali, di per se non è sufficiente a creare avanzi finanziari strutturali a favore dello stato esportatore in quanto la liberalizzazione nei movimenti di capitale potrebbe comportare una fuoriuscita dai confini dello stato dei guadagni commerciali realizzati, soprattutto quando il sistema economico del paese, per vari motivi, non viene considerato affidabile dai grandi operatori economici (si vedano, al riguardo, le considerazioni svolte nella precedente nota n. 24).

6 Il modello mercantilista, applicato oggi dalla Germania (nei confronti, principalmente, degli altri paesi europei) e dalla Cina (nei confronti dell’economia mondiale nel suo complesso) porta, a favore dei paesi che lo adottano efficacemente, la realizzazione di eccedenze finanziarie da impiegare in operazioni di prestito nei confronti, principalmente, dei paesi importatori. Basti pensare alla Cina, la quale detiene una quota considerevole del debito pubblico USA. E’ chiaro che il “parere” dello Stato creditore peserà in modo del tutto particolare sulle decisioni di risanamento che lo Stato debitore dovrà adottare. Gli stati con avanzo commerciale tendono ad avere politiche restrittive del credito interno al fine di controllare alcune variabili (tasso d’inflazione basso) essenziali allo stesso schema mercantilista (basato anche, come visto, sulla competitività da costi).

I rapporti fra i vari paesi europei aderenti all’euro paiono spesso basarsi su accordi taciti di non belligeranza, al fine di evitare, successivamente in caso di mancato rispetto, ad esempio, dei limiti posti, da ultimo, dal Fiscal Compact, l’applicazione di sanzioni comunitarie. Paradigmatico è l’esempio che si può portare al riguardo, in relazione al ripetuto “sforamento” da parte della Germania del limite posto al realizzo di saldi attivi della bilancia commerciale, che in base agli accordi conclusi in sede europea (c.d. Six Pack) non deve superare, in ciascun anno, il limite del 6% rispetto al PIL (all’evidente fine di evitare eccessivi deficit finanziari in capo ai paesi importatori, come spiegato sopra). In questo caso la Commissione europea anziché applicare le sanzioni previste si è limitata ad emanare una mera raccomandazione, con l’assenso, appunto, tacito di quei pesi (deboli) speranzosi, come detto, in caso di loro futuro non rispetto dei limiti di bilancio (rapporto deficit/PIL e debito/PIL), di ricevere un simile comprensivo trattamento. E’chiaro che la Germania, al fine di tentare di evitare le eccedenze da export avrebbe dovuto (o dovrà) incrementare la domanda interna mediante politiche inflazionistiche espansive, cosa, questo, però, in antitesi col modello mercantilista adottato.

Per doverosa completezza di ragionamento occorre osservare come potrebbe apparire anche equa la soluzione tale per cui la quota parte del debito causata da tali illegittime eccedenze di esportazione debba gravare, anziché sui paesi importatori, su quelli esportatori che, violando, ripetutamente e non occasionalmente, le norme europee, ne hanno causato la formazione.

7 La crisi dei differenziali degli spreads dei titoli pubblici dei paesi del sud Europa rispetto ai bund tedeschi, presi, ancora una volta, a modello di riferimento, deriva proprio dalle dinamiche appena descritte. I recenti interventi di QE da parte delle BCE sono stati anche rivolti all’acquisto, seppur sul mercato secondario, di titoli pubblici, permettendo, così, ai singoli stati di poter abbassare i tassi pagati sulle emissioni. L’effetto è stato quello di ottenere (almeno momentaneamente) una diminuzione del divario dei rendimenti di tasso fra i vari titoli pubblici europei rispetto al bund tedesco.

8 Tradendosi, così, il fine ultimo dello Stato, il quale smette lentamente e progressivamente di essere sociale, per giungere, sempre lentamente e progressivamente, a diventare, esso stesso, quasi una “grande azienda”, dov’è la produttività a diventare il criterio principale guida nell’assumere decisioni che ricadono, poi, sulla collettività.

9 Analizzando questi scenari è difficile non scorgere una dinamica che per semplicità possiamo ancora una volta definire “neoliberista”.

10 Un deficit strutturale della bilancia commerciale potrebbe non essere patologico nell’ipotesi in cui lo stato, grazie ad un circuito virtuoso interno, difficile da realizzare, riesca a produrre nuova ricchezza tale da sopperire alla fuoriuscita di risorse finanziarie.